Colin Wilson
I vampiri dello spazio

1

Gli strumenti di bordo registrarono il profilo massiccio molto prima che gli uomini l’avvistassero dagli oblò. Questo era naturale. Il Comandante Carlsen però era rimasto sconcertato dal fatto che, anche quando erano a solo mille e seicento chilometri di distanza e i razzi frenanti avevano ridotto la velocità a poco più di mille chilometri all’ora, quella forma misteriosa fosse invisibile.

Poi, Graigie, guardando dall’oblò principale, la vide stagliarsi nitida contro le stelle. Gli altri lasciarono i loro posti per andare a vedere. Dabrowsky, l’ingegnere capo, disse: — Un altro asteroide. Come lo chiameremo, questo?

Carlsen guardò fuori stringendo gli occhi contro la luce abbagliante delle stelle. Quando toccò il tasto dell’analizzatore, verdi linee simmetriche saettarono sullo schermo, distorte verso l’alto per effetto della velocità con cui stavano avvicinandosi alla forma grigiastra. — Non è un asteroide — disse. — È tutto di metallo.

Dabrowsky tornò a osservare il pannello. — Cos’altro può essere?

A quella velocità il ronzio dei motori atomici era appena più forte di quello di un orologio elettrico. Gli astronauti tornarono ai loro posti continuando a tenere d’occhio la forma smisurata che ora bloccava la vista delle stelle.

Nelle ultime quattro settimane avevano esaminato, e aggiunto alla nuova carta spaziale in preparazione, nove nuovi asteroidi.

Ora, con il loro istinto di esperti navigatori spaziali, erano certi che quello era qualcosa di diverso.

A tre chilometri, il profilo fu sufficientemente chiaro da non lasciare dubbi. — È una stupida astronave — disse Craigie.

— Cristo! Così grande?

Nello spazio sconfinato, senza normali punti di riferimento, le distanze ingannano l’occhio. Carlsen premette alcuni tasti sul computer. Dabrowsky, da dietro le spalle di Carlsen, esclamò incredulo:

— Ottanta chilometri?

— Impossibile — disse Graigie.

Dopo aver scambiato un’occhiata con Carlsen, Dabrowsky premette altri tasti e guardò il risultato.

— Quarantanove miglia e sessantaquattro. Quasi ottanta chilometri di lunghezza.

Adesso la forma grigio-nerastra bloccava tutta la vista dell’oblò principale, eppure non era possibile distinguere i particolari. Sembrava solo un’immensa muraglia. Il tenente Ives disse:

— La mia è soltanto un’idea, Comandante… Ma non sarebbe meglio, prima di avvicinarci maggiormente, mandare un messaggio alla base e aspettare la risposta?

— Ci vorranno almeno quaranta minuti — rispose Carlsen. — Preferisco avvicinarmi ancora un po’.

La base, sulla Luna, era lontana trecentoventi milioni di chilometri. Viaggiando alla velocità della luce la risposta sarebbe giunta in circa mezz’ora.

Adesso i motori erano silenziosi. Stavano navigando verso quella misteriosa astronave a ottanta chilometri all’ora. Il Comandante Carlsen fece spegnere tutte le luci della cabina.

A poco a poco, mentre la loro vista si adattava, cominciarono a vedere meglio la parete metallica grigio-scuro, che pareva assorbire la luce del sole. Quando arrivarono a poche centinaia di metri Carlsen fece fermare i motori della “Hermes”.

I sette astronauti si avvicinarono all’oblò. Attraverso lo spesso cristallo, trasparente come acqua limpida, potevano vedere la parete del misterioso vascello spaziale, torreggiante come una scogliera metallica che si stenda a perdita d’occhio.

Guardando verso il basso, vedevano la stessa ciclopica parete affondare come inghiottita dall’infinito dello spazio.

Erano tutti abituati all’assenza di gravità, ma guardare verso il basso causava ancora un senso di vertigine. Alcuni si ritrassero.

A quella distanza era evidente che la misteriosa astronave era un relitto alla deriva. La parete era a struttura granulare, e butterata. A un centinaio di metri sulla destra c’era uno squarcio largo circa tre metri. Alla luce del riflettore fu possibile notare lo spessore della parete metallica: quindici centimetri buoni. Spostarono lentamente il fascio di luce e videro altre profonde intaccature, e fori più piccoli provocati certo da meteore.

Steinberg, l’astronavigatore, disse: — Sembra che sia stata in battaglia.

— Può darsi. Ma è più probabile che sia incappata in una tempesta meteoritica.

Guardarono il Comandante Carlsen in silenzio.

— O una tempesta meteoritica, o è qui da un bel pezzo — disse lui.

Non c’era bisogno di chiedergli cosa volesse dire. Le possibilità che una astronave venga colpita da una meteora sono più o meno le stesse che una nave tradizionale ha, in pieno Atlantico, di urtare un relitto alla deriva.

Per essere ridotta così, quell’astronave doveva essere nello spazio da millenni.

Graigie, il marconista scozzese, disse: — Non mi va questa faccenda. C’è qualcosa di losco.

Anche gli altri si sentivano inquieti. Il Comandante Carlsen disse, con voce calma: — Potrebbe anche essere la più grande scoperta scientifica del ventunesimo secolo.

Nell’eccitazione e nella tensione di quell’ultima ora, nessuno ci aveva pensato. Ora, grazie all’intuizione quasi telepatica che si sviluppa fra gli uomini dello spazio, accomunandoli, tutti capirono quello che Carlsen pensava. Quella scoperta poteva renderli tutti più celebri del primo uomo che aveva messo piede sulla Luna. Avevano trovato un’astronave che evidentemente non era di provenienza terrestre. La scoperta dimostrava, al di là di ogni dubbio, che in altre galassie esistevano forme di vita intelligente.

Un ticchettio dalla radio li fece sussultare. Stava per arrivare la risposta dalla base lunare. Udirono la voce di Dan Zelensky, il sovrintendente capo. Dal tono era chiaro che il loro messaggio aveva già prodotto grande agitazione.

— Bene. Ma procedete con precauzione e fate tutti i controlli di radioattività e virus spaziali. Comunicateci i risultati appena possibile.

Nel più completo silenzio, tutti ascoltarono anche la risposta dettata a Craigie da Carlsen. La voce di Craigie era emozionata.

— Si tratta indubbiamente di un’astronave extraterrestre. Sarà lunga circa ottanta chilometri e alta quaranta. Sembra un incredibile castello galleggiante nello spazio. Riteniamo improbabile che ci sia vita a bordo. Si trova qui forse da vari secoli. Chiediamo il permesso di esplorare l’astronave. — Il messaggio venne ripetuto sei volte, a intervalli di un minuto, in modo che se ci fossero stati disturbi alla ricezione, alla fine sarebbe stato possibile comunque capirlo.

Attesero la risposta per un’ora, e intanto la “Hermes” ondeggiava accanto all’astronave misteriosa, a volte urtandola piano. Gli uomini mangiarono carne in scatola e spinaci, e coronarono il pasto con whisky scozzese. L’eccitazione della scoperta aveva messo a tutti una fame da lupo.

Poi udirono di nuovo la voce di Zelensky, greve di tensione. — Vi preghiamo di prendere ogni precauzione. Preparatevi a tornare immediatamente alla base lunare in caso di pericolo. Vi consigliamo una notte di riposo prima di rischiare l’esplorazione dell’astronave. Abbiamo consultato John Skeat dell’Osservatorio di Monte Palomar, e anche lui si dichiara sbalordito. Ha fatto notare che se questa astronave è davvero lunga ottanta chilometri la si sarebbe dovuta scoprire già alla fine del secolo diciassettesimo. Fotografie a lunga esposizione, tutte quelle che abbiamo potuto studiare, non mostrano niente in quella zona dello spazio. Vi raccomandiamo di completare tutti gli esami d’obbligo prima di salire a bordo.

Riascoltarono il messaggio diverse volte, con attenzione, anche se non diceva loro niente che non avessero potuto prevedere. La vita nello spazio è spesso monotona e la solitudine qualche volta pesa. Ora venivano a sentirsi improvvisamente al centro dell’attenzione universale. Sapevano che a quell’ora sulla Terra la notizia era stata diffusa dalla televisione di tutti i paesi. Da due ore erano entrati nella storia.

In quel momento a Londra erano le sette di sera. Sulla “Hermes” gli uomini regolavano i loro giorni con l’ora di Greenwich: era un modo per mantenersi in contatto col loro mondo. Ora li aspettava una serata scialba, dopo tutta l’emozione della giornata. Carlsen fece distribuire una razione supplementare di whisky, ma non tanto da ubriacare qualcuno. Non voleva salire a bordo dell’astronave sconosciuta con un equipaggio sofferente dei postumi di una sbronza.

Insieme con Giles Farmes, l’ufficiale medico, Carlsen manovrò la “Hermes” in modo che un portello di uscita venisse a trovarsi esattamente di fronte allo squarcio che si apriva nello scafo della gigantesca astronave, e un paio di robot teleguidati vi entrarono per prelevare dal relitto campioni di polvere cosmica. Le analisi, tese a rilevare la presenza di virus spaziali, risultarono negative. (Dopo il disastro della “Ganimede”, avvenuto nel 2013, gli astronauti erano diventati sensibilissimi ai pericoli che potevano portare sulla terra con la loro astronave). Trovarono leggere tracce di radioattività, ma non superiori a quelle riscontrabili in una polvere che fosse stata esposta a periodici scoppi di radiazioni dovute a eruzioni solari. Le fotografie scattate dai robot mostravano un ampio locale le cui dimensioni era difficile stabilire. Nell’ultimo bollettino emesso prima di andare a dormire, il Comandante Carlsen disse che secondo lui l’astronave doveva essere stata costruita da giganti. Una frase di cui si sarebbe pentito.

Nessuno riuscì ad addormentarsi facilmente, Carlsen restò sveglio a lungo, chiedendosi come sarebbe stata d’ora in avanti la sua vita. Quarantacinque anni, di origine norvegese, Olaf Carlsen era sposato con una bella ragazza bionda di Alesund alla quale non piaceva che lui compisse viaggi di sei mesi a esplorare lo spazio. Adesso c’era la probabilità che Carlsen tornasse sulla Terra definitivamente. Come capitano della spedizione avrebbe avuto il diritto di scrivere e vendere i primi articoli e il primo libro sulla sua scoperta. Sarebbe bastato questo a farlo diventare ricco. Gli sarebbe piaciuto comprarsi una fattoria in una delle Isole Ebridi che tanto amava, e passare un paio d’anni a esplorare i vulcani dell’Islanda… Questi allettanti progetti, invece di conciliargli il sonno, aumentarono la sua eccitazione. Alle tre del mattino si decise a prendere un leggero sonnifero. Si addormentò, ma per il resto della notte sognò giganti e castelli popolati da fantasmi.


Finirono di fare colazione prima delle dieci. Nel frattempo Carlsen aveva deciso chi sarebbe andato con lui a bordo del relitto. Scelse Craigie, Ives e Murchison, il secondo ingegnere. Murchison era grande e grosso, e Carlsen si sentiva in un certo senso tranquillizzato all’idea di averlo nel gruppo.

Dabrowsky caricò la minicamera con pellicola sufficiente a due ore di ripresa. Se ne servì per riprendere la scena dei compagni che si infilavano le tute spaziali, poi chiese a ognuno di loro di dire quello che provava in quel momento. Vedeva già il suo documentario trasmesso alla televisione.

Steinberg, un giovane ebreo di New York, aveva l’aria cupa e malinconica. Carlsen si chiese se fosse offeso per non essere stato incluso nel numero di quelli che sarebbero andati sull’astronave. — Come ti senti, Dave? — gli domandò. — Bene — rispose Dave. Ma quando vide che Carlsen inarcava un sopracciglio, aggiunse: — Ho una specie di presentimento… non so. Quell’astronave mi dà i brividi.

Carlsen provò una stretta allo stomaco. Si ricordava che Steinberg aveva avuto un presentimento simile tre anni prima, poco prima che la “Hermes” rischiasse di avere un incidente fatale sull’asteroide Hidalgo. Quella volta, una superficie che sembrava solida era sprofondata sotto di loro, danneggiando seriamente le apparecchiature per l’atterraggio, e provocando il ferimento del geologo Dixon. Dixon era morto due giorni dopo. Carlsen cercò di non lasciarsi vincere dall’apprensione.

— Siamo tutti un po’ agitati — disse. — Basta guardarla quella cosa… Sembra il castello di Frankenstein!

Dabrowsky disse: — Olaf, vuoi fare una breve dichiarazione?

Carlsen si strinse nelle spalle. Odiava l’aspetto pubblicitario delle esplorazioni, ma faceva parte del lavoro anche quello. Rassegnato, si sedette sullo sgabello di fronte alla minicamera.

Per incoraggiarlo Dabrowsky cominciò: — Come ci si sente all’idea di…

— Ecco, non sappiamo affatto che cosa troveremo là dentro. Non sappiamo niente di quell’astronave. Il professor Skeat dell’Osservatorio di Monte Palomar ritiene molto strano che quel relitto non sia stato notato prima date le sue dimensioni… una lunghezza di ottanta chilometri, più o meno. Gli astronomi sono riusciti a scoprire frammenti di asteroidi lunghi poco più di tre chilometri, servendosi della comparazione fotografica. Può darsi che questa gigantesca astronave sia risultata invisibile a causa del suo colore… è un grigio talmente opaco che non riflette la luce… Dunque, direi che… — S’interruppe. Aveva perso il filo.

Dabrowsky fu pronto a intervenire. — È un grande momento, dunque…

— Sì, certo, naturale… Siamo tutti eccitati… — Per quello che lo riguardava, non era vero. Carlsen era sempre calmo e controllato nei momenti decisivi. — Questo potrebbe essere il nostro primo vero contatto con forme di vita aliene, appartenenti ad altre galassie. D’altro canto, questa astronave potrebbe essere antica, molto antica, e i suoi…

— Antica quanto?

— Come diavolo faccio a saperlo? A giudicare dalle condizioni dello scafo potrebbe essere qui da un periodo che sta fra i diecimila anni e i dieci milioni di anni…

— Dieci milioni?

Carlsen perse la pazienza. — Oh, Cristo, ferma quella macchina! Credi di essere in uno studio cinematografico?

— Scusami, capo — gli diede una manata sulla spalla. — Non è colpa tua, Joe. Solo che io non sopporto tutte queste storie.

Si rivolse ai tre compagni che aspettavano, già pronti.

— Su, andiamo.

Entrò per primo nel compartimento stagno. Sarebbero passati uno per volta, per motivi di sicurezza. Le potenti calamite applicate alle suole delle scarpe simulavano l’esistenza della gravità. Quando si sporse a guardare nel baratro, Carlsen provò un senso di vertigine. Si spinse fuori con cautela, poi sbatté il portello alle sue spalle. Nel vuoto, il colpo non fece alcun rumore. Si diede una spinta con le mani, superò la distanza fra le due astronavi, poco meno di due metri, e passò dallo squarcio slabbrato. Aveva a tracolla la telecamera. La sua torcia elettrica non era più grande di una normale lampada, ma le batterie atomiche che la alimentavano permettevano di proiettare il raggio di luce per chilometri. Il pavimento metallico era a cinque o sei metri sotto di lui. Ma quando vi appoggiò i piedi, Carlsen rimbalzò in alto. Evidentemente era antimagnetico. Carlsen si lasciò posare, librandosi a testa in giù, leggero come un palloncino. Si sedette sul pavimento e rivolse il raggio della lampada verso lo squarcio da dove era entrato, per segnalare che tutto andava bene. Poi si guardò intorno.